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DALLA DISTRUZIONE FISICA A QUELLA PSICOLOGICA DI MILIONI DI DONNE

Marta Caiafa III A


 



Le mutilazioni genitali femminili, o MGF, sono discriminatorie e violano il diritto delle ragazze alla salute, alla parità dei diritti e delle opportunità, a essere tutelate da abusi, violenze, torture o trattamenti inumani, oltre che a rappresentare una grave ferita sia fisica che psicologica.


Le mutilazioni genitali femminili, nonostante vengano considerate una violazione dei diritti umani a livello internazionale, sono ancora presenti in oltre trenta Paesi del mondo, tra cui Indonesia, Malesia, alcune zone dell’Africa meridionale e dell’Asia.

L’Europa non è esente però da questo scempio, in quanto tra il XIX e il XX secolo si è assistito ad interventi di clitoridectomia (asportazione della clitoride) al fine di trattare l’isteria femminile.

Questa pratica ora è illegale nell’UE, ma alcuni Stati membri la perseguono comunque quando viene eseguita fuori dal Paese, in quanto molte donne rischiano di essere sottoposte a interventi di clitoridectomia quando tornano nel luogo natio per far visita ai parenti, violando le disposizioni legislative indette dal Parlamento europeo, tra cui, quella di condannare chiunque esegua questa pratica a un cittadino membro dell’UE al di fuori delle frontiere.

Circa 600mila donne che vivono in Europa sono state vittime di questa violenza fisica e psicologica, e altre 180mila sono a rischio in 13 Paesi europei.


La clitoridectomia, praticata su ragazze di età compresa tra i 4 e i 15 anni, comporta l’asportazione totale o parziale degli organi genitali femminili esterni con la possibilità della ricostruzione di quest’ultima, che presenterà però una sensibilità ridotta.

Le donne che sopravvivono a questa tortura vanno incontro a conseguenze sul lungo periodo quali: forti dolori nelle mestruazioni e durante i rapporti sessuali, maggiore probabilità di contrarre patologie come HIV e AIDS, epatite o malattie veicolate dal sangue, oltre che, un maggiore rischio di mortalità materna nel corso del travaglio durante il quale spesso il bambino, a causa della scarsa elasticità del tessuto reciso in precedenza, rischia la morte.

Ad eseguire le mutilazioni sono donne, solitamente levatrici o vere e proprie ostetriche, che operano in scarse condizioni igienico-sanitarie, senza l’utilizzo di anestetici, antibiotici o materiale sterile, comportando quindi un altissimo tasso di mortalità durante l’intervento.

Per tutte le ragazze l’evento rappresenta un grave trauma, molte bambine entrano in uno stato di shock a causa dell’intenso dolore e del pianto irrefrenabile che segue.

L’origine di questa tecnica non dipende da motivazioni religiose, come molti pensano, in quanto è una pratica tanto antica per cui è difficile rintracciarne un’origine certa.

Lo storiografo greco Erodoto, risalente al V secolo a. C, parla di questa usanza a proposito delle popolazioni africane.

Le motivazioni di questa tortura inizialmente erano collegate a un rito di passaggio dall’età infantile a quella adulta, oggi invece sono collegate a false credenze, secondo le quali questa procedura porta benefici igienici ed estetici, promuove la fertilità delle ragazze e preserva la loro reputazione.

Questa pratica nelle varie tribù rurali, insediate in alcuni Stati del Corno d’Africa, dell’Egitto e della Guinea, è fondamentale, in quanto la ragazza, una volta superato il rito di passaggio, dimostra alla comunità di avere abbastanza forza e coraggio da trovare un marito e, una volta unite in matrimonio, le giovani donne dovranno abbandonare gli studi per dedicarsi a faccende quotidiane e alla nascita di un futuro bambino, con le relative complicazioni del parto dovute a questa procedura.

Associazioni quali l’AMREF, l’UNICEF ed ACTIONAID cercano di intervenire nei vari villaggi per porre fine a questa procedura per sostituire questo rito di passaggio con un altro più sicuro, che tuteli la salute delle stesse ragazze, mantenendo invariate le tradizioni legate al passaggio dall’infanzia all’età adulta, che permettano il formale rispetto delle tradizioni senza far soffrire i membri della propria comunità, così come avviene nelle società cattoliche con comunione e cresima. I riti di passaggio innovativi consistono in cerimonie annuali tenute dai membri della comunità, ma sostenute da associazioni che si battono per la tutela dei diritti umani, come quelle citate in precedenza.

Queste associazioni cercano di fare il più possibile, al fine di perseguire l’obiettivo proposto dall’ONU: eliminare definitivamente questa pratica entro il 2030. Per saperne di più:



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