Nella notte del 18 settembre 1945, due giorni prima dell’arrivo dei sovietici nel campo di sterminio di Chełmno in Polonia, i tedeschi spararono in testa a Simon Srebnik. Erano convinti di averlo ucciso ma la pallottola non colpì i centri vitali e Simon se la cavò. Fu trovato da un contadino polacco, curato da un medico russo al seguito dell’Armata Rossa. Simon aveva allora 13 anni, era agilissimo e con una bellissima voce. Simon era un internato, un “ebreo del lavoro”, addetto alla manutenzione del campo di sterminio. Solo lui e Michaël Podchlebnik riuscirono a sopravvivere all’inferno di Chełmno. Solo due persone su oltre 400mila ebrei assassinati in due distinti momenti tra il 1941 e il 1943 e poi tra il 1944 e il 1945.
Curiosamente proprio il 7 dicembre 1941, mentre i giapponesi attaccavano Pearl Harbour, cominciava a funzionare il campo di sterminio di Chełmno. Tutte le vittime morirono nello stesso identico modo: con il gas di scarico all’interno dei cassoni dei camion, meticolosamente preparati per la morte. Circa trent’anni dopo, Simon, tornato in Polonia per rivedere i luoghi in cui aveva passato gli ultimi anni della sua infanzia, ricordava: “Qui era sempre così tranquillo. Sempre. Quando bruciavano ogni giorno 2000 persone, ebrei, era altrettanto tranquillo. Nessuno gridava. Ognuno faceva il proprio lavoro. Era silenzioso. Calmo. Come ora.”
La storia di Simon è un esempio di come le storie individuali si siano spesso intrecciate con la Grande Storia, quella con la “S” maiuscola. La memoria è l’occasione perché tali vicende individuali non vengano perse e possano concorrere a costruire una corretta narrazione della Grande Storia. Una storia senza memoria perde di umanità e rischia di dividere irrimediabilmente il passato dal presente. Purtroppo la scomparsa progressiva dei testimoni costringe ad aprire una nuova fase della narrazione storica. Per questi e altri motivi, il Parlamento italiano ha istituto da tempo il Giorno della Memoria con un apposita legge (L 211/2000). Ma è giusto imporre la memoria per legge? La risposta è molto difficile. Possiamo però fare qualche riflessione. Certamente l’imposizione per legge rischia di trasformare le celebrazioni in atti dovuti e riti vuoti e non sentiti. Il rischio è elevato e ne intravediamo dei preoccupanti segnali. Possiamo però immaginare dei significativi anticorpi per frenare questa deriva. In primo luogo, come ci ricorda la stessa legge, se sapremo parlare non solo delle vittime ma anche dei giusti che per salvare vite, misero in pericolo la loro. In secondo luogo se sapremo comprendere che la tragedia della Shoah, delle leggi razziali, delle persecuzioni, delle deportazioni, non è un fatto chiuso che riguarda solo alcuni ma è una questione aperta che riguarda tutti in quanto esseri umani. La storia ha dimostrato – anche recentemente – che non ha ancora cessato di generare vittime, carnefici e indifferenti. Ma la storia dimostra anche che, sull'esempio dei giusti, quello che è stato ieri, potrà non essere domani.
Renato Bonomo
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